venerdì 29 aprile 2011

L. F. CELINE - Il dott. Semmelweiss

Tesi di laura del caro Céline, in una asciutta piccola edizione dei tipi di Adelphi. Lo si ricorda qui perché utile a comprendere la penna e l'animo del notissimo scrittore francese, al secolo dottor. Destouches. Infatti questa è la sua tesi di laurea in medicina. Non inorridiscono quelli che pensano a trattati sulla cisterna del Pecquet o a papillomi vari. La tesi tratta della triste vicenda di un brillante medico mitteleuropeo ottocentesco. Costui si accorse che la febbre puerperale che affilggeva molte partorienti conducendole alla morte era generata in moltissimi casi da semplice setticemia indotta...dagli stessi ostetrici che, ignari o incuranti delle più elementari norme igeniche, "trattavano" le madri con le mani sozze di altrui viscere. Incredibile eh? Eppure succedeva circa un secolo fa. Il dottore suggerì semplicemente di lavarsi le mani in una soluzione sanitaria a base di candeggina. Le sue personali sperimentazioni ridussero clamorosamente le morti delle puerpere nelle cliniche in cui operò. Incredibilmente fu osteggiato, deriso, umiliato ed infine scacciato dai propri colleghi. Finì in sanatorio, dove morì (sigh!) di setticemia.
Ci volle un Pasteur qualunque per riabilitarlo, purtroppo post mortem.
Se voi e mamma siete vivi lo dovete un poco pure a lui.
La vicenda è avvincente e la scrittura di Céline convince, seppure ancora cruda, giovanile e priva delle folli sciarade di sarcasmo...e dei puntini...

giovedì 28 aprile 2011

W. T. VOLLMAN - Europe Central

Ecco per affrontare Europe Central sono necessarie alcune cose:
MATERIALI
1. Matita 2B
2. Matite colorate
3. Post it
4. Segna Pagine
5. Quaderno per annotazioni
6. Poster bianco, direi 1m x 1m...per collegamenti tra fatti e personaggi (frecce ecc...)
7. Pennarelli
8. Vocabolario della lingua italiana...prima pagina del libro, tre parole sconosciute, almeno per me.

SPIRITUALI
8. Pazienza
9. Amore per la Storia
10. Tempo

Questo libro è infatti denso come un buco nero, tale da non poter essere affrontato se non con la summenzionata dotazione (e per difetto ed approsimazione).

Qui si tratta di un affresco storico sullo stile di Guerra e Pace, ma laddove Tolstoj è miracolosamente lineare, Volmann è intricatissimo.
Per due motivi:
1) si tratta della seconda guerra mondiale, nell'eccezione dei fronti nazifascista vs comunista. Periodo storico ancora interpretabile e incomprensibile in termini di etologia umana. Niente cavalli e cannoni di Napoleone. Armi di sterminio di massa, mica baionette. Distacco neurologico tra azione e conseguenze (schiaccio il bottone e distruggo intere città - cioè una cosa incomprensibile in uno scontro naturale tra animali, molto più di una palla di piombo almeno).
2) L'arte letteraria dei nostri anni paga tributo alla nostra possibilità sterminata di ricercare e ricevere informazioni,  a cui ci ha abituati il sistema mediatico in cui siamo immersi.

Wollman prende eventi quotidiani insignificanti e distorce lo spazio tempo con la penna, collegando le distanze geografiche di una Europa in fiamme alle anime in pena che la abitano, ricordandoci che lo zeitgeist è il geist di ciascuno di noi, voltente o nolente, recalcitrante o drogato di esso.

Finisco con l'aggiungere una elencazione dei personaggi principali del libro: Dmitri Shostakovich, Käthe KollwitzRoman Karmen, Anna Akhmatova, Kurt Gerstein, Friedrich Paulus, Andrey Vlasov. Ed è una minima parte dei volti che abitano queste pagine.

Confuso, basito, piegato ed umiliato, ve lo suggerisco.

martedì 19 aprile 2011

V. EVANGELISTI - Rex tremendae maiestatis.

Domenica ho finito questo libro con un monte ore otto ininterrotte salvo per pisciare in autogrill a bordo di un camper caldissimo impestato dall'afrore di fragole mature... Dopo 16 "apparizioni" forse lo avrei fatto fuori anch'io. Forse no. Evangelisti pone in questo romanzo il full stop non tanto alle avventure del suo inquisitore Eymerich, quanto alla vita del medesimo.
Rex tremendae maiestatis, l'ultima fatica del nostro eroe buono cattivo, è come sempre una conferma della capacità di scrittura di Valerio Evangelisti: tutto corre alla perfezione, senza grossi scossoni rispetto alla costante maturità raggiunta dalla penna dell'autore negli ultimi romanzi della serie (da Mater Terribilis in poi). Nelle vicende qui narrate si tirano le fila di alcuni dei conti in sospeso lasciati inquisiti nella saga, con un finale non del tutto inaspettato conoscendo anche la similare saga di Magus...
...La sensazione comunque è che Evangelisti non sapesse esattamente dove stesse andando a parare mentre scriveva (a quanto letto in un intervista era malato all'epoca della stesura e temeva per la propria vita, quindi voleva chiudere)...in realtà credo che il romanzo fosse già lì nell'iperurarnio delle cose perfette: le premesse, le ipotesi c'erano già tutte nei precedenti episodi. Mancava la consequenziale tesi.

Se non conoscete Evangelisti vi conviene cominiciare da uno dei primi romanzi della serie, non certo da questo.

giovedì 7 aprile 2011

S. DAGGERMAN - Il nostro bisogno di conosolazione

Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto.
Cosa stringo allora tra le mie braccia?
Poiché sono solo: una donna amata o un infelice compagno di strada. Poiché sono un poeta: un arco di parole che tendo sentendomi pervadere di gioia e di spavento. Poiché sono un prigioniero: un improvviso spiraglio di libertà. Poiché sono minacciato dalla morte: un animale caldo e vivo, un cuore che batte irridente. Poiché sono minacciato dal mare: uno scoglio d’inamovibile granito.
Posso riempire tutti i miei fogli bianchi con le più belle combinazioni di parole che sorgono dal mio cervello. Siccome desidero assicurarmi che la mia vita non sia priva di senso e che io non sia solo sulla terra, raccolgo le parole in un libro e ne faccio dono al mondo. Il mondo mi dà in cambio dei soldi, la fama e il silenzio. Ma che m’importa dei soldi, che m’importa di contribuire a rendere più grande e perfetta la letteratura? L’unica cosa che m’importa è quella che non ottengo mai: l’assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo. Cos’è allora il mio talento se non una consolazione per la mia solitudine? Ma che consolazione spaventosa, che riesce solo a farmi vivere la solitudine con intensità cinque volte maggiore!
Uomini diversi hanno padroni diversi. Io, per esempio, sono a tal punto schiavo del mio talento che non ho il coraggio di farne uso per timore d’averlo perso. Sono poi così schiavo del mio nome da non osare quasi scrivere una riga per paura di arrecargli danno. E quando infine sopravviene la depressione, sono schiavo anche di quella. Il mio più grande desiderio diventa quello di trattenerla, il mio più grande piacere è sentire che il mio unico valore stava in ciò che credo di aver perduto: la capacità di spremere bellezza dalla mia disperazione, dal mio disgusto e dalle mie debolezze. Con gioia amara voglio vedere le mie case crollare e me stesso sepolto nell’oblio. Ma la depressione ha sette scatole, e nella settima sono riposti un coltello, una lametta da barba, del veleno, un’acqua profonda e un salto da una grande altezza. Finisco per essere schiavo di tutti questi strumenti di morte. Mi seguono come cani, o sono io a seguirli come un cane. E mi pare di capire che il suicidio è l’unica prova della libertà umana.
Dal momento che mi trovo sulla riva del mare, dal mare posso imparare. Nessuno ha il diritto di pretendere dal mare che sorregga tutte le imbarcazioni o di esigere dal vento che riempia costantemente tutte le vele. Così nessuno ha il diritto di pretendere da me che la mia vita divenga una prigionia al servizio di certe funzioni. Non il dovere prima di tutto, ma prima di tutto la vita! Come ogni essere umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere un’unità che agisce autonomamente.
Solo in questi momenti posso essere libero davanti a tutte quelle consapevolezze sulla vita che mi hanno prima portato alla disperazione. Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che l’eternità non si cura di me. Ma chi mi chiede di curarmi dell’eternità? La mia vita è breve solo se la colloco sul patibolo del calcolo del tempo. Le possibilità della mia vita sono limitate solo se faccio il conto della quantità di parole o di libri che avrò il tempo di produrre prima della mia morte. Ma chi mi chiede di fare questo conto? Il tempo è una falsa misura per la vita. Il tempo è in fondo uno strumento di misura privo di valore, perché tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita.
Ma tutto quel che mi accade di importante, tutto quel che conferisce alla mia vita il suo contenuto meraviglioso – l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza – tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è del tutto indifferente. Non solo la beatitudine si trova al di fuori del tempo, ma essa nega anche ogni relazione tra il tempo e la vita.
Depongo dunque il fardello del tempo dalle mie spalle e, con esso, quello delle prestazioni che da me si pretendono. La mia vita non è qualcosa che si debba misurare. Né il salto del capriolo né il sorgere del sole sono delle prestazioni. E nemmeno una vita umana è una prestazione, ma uno svilupparsi e ampliarsi verso la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni, opera nella quiete. È privo di senso sostenere che il mare esiste per sorreggere flotte e delfini. Lo fa, certo, mantenendo però la sua libertà. Ed è altrettanto privo di senso affermare che l’uomo esiste per qualcos’altro che non sia il vivere. Certo, egli alimenta macchine o scrive libri, ma potrebbe fare qualsiasi altra cosa. L’essenziale è che faccia quel che fa mantenendo la propria libertà e con la chiara coscienza di avere in sé – come ogni altro dettaglio della creazione – il proprio fine. Egli riposa in se stesso come una pietra sulla sabbia.
Posso anche essere libero dinanzi al potere della morte. Certo, non potrò mai liberarmi dal pensiero che la morte segue i miei passi, e tanto meno negare la sua realtà. Ma posso ridurre la minaccia fino ad annullarla non ancorando la mia vita a punti d’appoggio tanto precari come il tempo e la fama.
Il mondo è dunque più forte di me. Al suo potere non ho altro da opporre che me stesso – il che, d’altra parte, non è poco. Finché infatti non mi lascio sopraffare, sono anch’io una potenza. E la mia potenza è temibile finché ho il potere delle mie parole da opporre a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà. Ma la mia potenza sarà illimitata il giorno in cui avrò solo il mio silenzio per difendere la mia inviolabilità, perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente.
Questa è la mia unica consolazione. So che le ricadute nella disperazione saranno molte e profonde, ma il ricordo del miracolo della liberazione mi sostiene come un’ala verso una meta vertiginosa: una consolazione più bella di una consolazione e più grande di una filosofia, vale a dire una ragione di vita.

Da Il nostro bisogno di consolazione, Iperborea, Milano 1993.

Compratevelo, fatevi un regalo.      

venerdì 1 aprile 2011

PACO IGNACIO TAIBO II - A quattro mani

Compagno di viaggio delle ultime vacanze sarde con i miei genitori. Amatissimo e riletto più volte, mi fece da guanciale notturno per quelle trite giornate (ora agognate per motivi di anagrafica dei miei) e da ombrellone sulla faccia, mentre stavo sul bagnasciuga.
Traboccante di personaggi tra cui Stan Laurel che va in Messico a sbronzarsi e assiste all'omicidio di Pancho Villa, un nano impegnato a smantellare l'organizzazione di controinformazione della Cia (lo SHIT DEPT.), un carcerato politico russo che sta riscrivendo un'opera salgariana...due giornalisti che cercano di tirare le fila di tutto (da cui il titolo)...ovviamente, altrimenti ci si perde. Comunque una trama mostruosa, scoppiettante come una cena messicana, scrittura paragonabile ad un Bud Spencer in bomber che mangia fagioli, idee come bombe nella scena finale del dott. Stranamore, ma non singole, a piovere. E soprattutto tanto da ridere. Per gli amanti della cospirazione internazionale.
Cito:
Vuotò la coppa d'un colpo, prese la bottiglia e si servì di nuovo. Il vino traboccò e qualche goccia sulla tavola macchiò la nuova serie di passaporti messicani che Longoria falsificava nei momenti di ozio per i ragazzi salvadoregni.
- Brindò ai nani, perché loro vedono le cose nella giusta e umile dimensione, dal basso. Brindò alla Senna e agli usi costruttivi della nitroglicerina. Brindò ai vecchi amici. Che le loro ossa possano concimare i cimiteri della nostra memoria.
Bevve ancora. Poteva trovarsi a Parigi o a Città del Messico. Gliene importava tre par di coglioni. Finché non dimenticava i vecchi compagni, finché ricordava puntualmente da che parte della barricata vivono, dormono, si coricano e si alzano quelli buoni per veder sorgere il sole.
A quel punto alzò la bottiglia e disse:
- A morte i cattivi! - e se la trangugiò fino all'ultima goccia.